cooperativa sociale del territorio di Guidonia Montecelio.
promuove partecipazione attiva e lotta alle esclusioni socioculturali.
si rivolge in particolare a quelle categorie di cittadinanza a rischio emarginazione (cittadini con disabilità, cittadini migranti, cittadini con sofferenza e/o disagio psichico, ...)
venerdì 16 marzo 2012
PER SEGUIRE I PRODOTTI AUDIOVISIVI DELLA COOPERATIVA SOCIALE ALTERNATA S.I.Lo.S. onlus
Marisa Madieri descrive il Silos di Trieste, simile ai tanti campi profughi sparsi in tutta l'Italia dove fummo accolti:
[...] Feci cosí la mia prima conoscenza del Silos, dove vivevano accampati migliaia di profughi istriani, dalmati o fiumani come noi. Era un edificio immenso di tre piani, costruito sotto l' impero absburgico come deposito di granaglie, con un ampia facciata ornata da un rosone e due lunghe ali che racchiudevano una specie di cortile interno, dove i bambini andavano a giocare a frotte e le donne stendevano i panni. L'esterno di questo edificio è ancor oggi visibile vicino alla stazione ferroviaria. l pianterreno, il primo e il secondo piano erano quasi completamente immersi nel buio. Il terzo era invece rischiarato da grandi lucernai posti sul tetto, che però non potevano essere aperti.
In ogni singolo piano lo spazio era suddiviso da pareti di legno in tanti piccoli scomparti detti "box", che si susseguivano senza intervalli come celle di un alveare. Si aprivano tra di essi strade maestre e stradine secondarie di collegamento.
I box erano tutti numerati e qualcuno aveva anche un nome, proprio come una villa. Anche le strade avevano nomi di riconoscimento: la strada della dalmata, quella dei polesani, la via della cappella o quella dei lavandini. Naturalmente i box più ambiti erano quelli vicino a una delle rare finestre che si aprivano sull' esterno o quelli del terzo piano, che almeno ricevevano dal tetto la luce del giorno.
Entrare al Silos era come entrare in un paesaggio vagamente dantesco, in un notturno e fumoso purgatorio. Dai box si levavano vapori di cottura e odori disparati, che si univano a formarne uno intenso, tipico,indescrivibile, un misto dolciastro e stantio di minestre, di cavolo, di fritto, di sudore e di ospedale.
Marisa Madieri descrive il
RispondiEliminaSilos di Trieste, simile ai tanti campi profughi sparsi in tutta
l'Italia dove fummo accolti:
[...] Feci cosí la mia prima conoscenza
del Silos, dove vivevano accampati migliaia di profughi istriani,
dalmati o fiumani come noi. Era un edificio immenso di tre piani,
costruito sotto l' impero absburgico come deposito di granaglie, con un
ampia facciata ornata da un rosone e due lunghe ali che racchiudevano
una specie di cortile interno, dove i bambini andavano a giocare a
frotte e le donne stendevano i panni. L'esterno di questo edificio è
ancor oggi visibile vicino alla stazione ferroviaria.
l pianterreno, il
primo e il secondo piano erano quasi completamente immersi nel buio. Il
terzo era invece rischiarato da grandi lucernai posti sul tetto, che
però non potevano essere aperti.
In ogni singolo piano lo spazio era
suddiviso da pareti di legno in tanti piccoli scomparti detti "box",
che si susseguivano senza intervalli come celle di un alveare. Si
aprivano tra di essi strade maestre e stradine secondarie di
collegamento.
I box erano tutti numerati e qualcuno aveva anche un
nome, proprio come una villa. Anche le strade avevano nomi di
riconoscimento: la strada della dalmata, quella dei polesani, la via
della cappella o quella dei lavandini. Naturalmente i box più ambiti
erano quelli vicino a una delle rare finestre che si aprivano sull'
esterno o quelli del terzo piano, che almeno ricevevano dal tetto la
luce del giorno.
Entrare al Silos era come entrare in un paesaggio
vagamente dantesco, in un notturno e fumoso purgatorio. Dai box si
levavano vapori di cottura e odori disparati, che si univano a formarne
uno intenso, tipico,indescrivibile, un misto dolciastro e stantio di
minestre, di cavolo, di fritto, di sudore e di ospedale.